N. 5/2023
Con ordinanza n. 64 del 3 gennaio 2023, la VI Sezione Civile della Corte di Cassazione, conferma il proprio orientamento sui criteri di valutazione dello stato di insolvenza nel fallimento.
I Giudici di legittimità hanno chiarito che l’insolvenza rilevante al fine della declaratoria di fallimento non indica un “fatto” – cioè un avvenimento puntuale – bensì “uno stato, e cioè una situazione dotata di un certo grado di stabilità” (Cass. civ., Sez. I, sentenza n. 29913 del 20/11/2018), intendendosi tale “uno stato d’impotenza economico – patrimoniale, idoneo a privare tale soggetto della possibilità di far fronte, con mezzi ‘normali’, ai propri debiti” (Cass. civ., Sez. Un., sentenza n. 1997 del 11/02/2003).
Lo stato d’insolvenza, dunque, si manifesta con inadempimenti od altri fatti esteriori, i quali dimostrino che il debitore non è più in grado di soddisfare “regolarmente” le proprie obbligazioni.
Dirimente, sul punto, è certamente l’utilizzo fatto dal legislatore dell’avverbio “regolarmente”, riproposto anche nel nuovo codice della crisi d’impresa.
Il predetto avverbio indica non solamente l’incapacità del debitore di far fronte alle obbligazioni alle debite scadenze, bensì anche alla sua incapacità di far fronte alle obbligazioni con mezzi normali, in relazione all’ordinario esercizio di impresa.
Infatti, non si può parlare di insolvenza se l’imprenditore ha una momentanea difficoltà a soddisfare una singola obbligazione.
Pertanto, secondo tale orientamento, lo stato di insolvenza delle società, che non siano in liquidazione, deve essere desunto non già dal rapporto tra attività e passività, bensì dall’impossibilità dell’impresa di continuare ad operare proficuamente sul mercato.
In tal senso, l’impossibilità di operare dell’impresa deve tradursi in una situazione d’impotenza strutturale e non soltanto di passaggio, a soddisfare regolarmente e con mezzi normali le proprie obbligazioni, per il venir meno delle condizioni di liquidità e di credito necessarie allo svolgimento dell’attività.
Tale situazione di irreversibilità può essere desunta, nel contesto dei vari elementi, anche dal mancato pagamento dei debiti e che, tale inadempimento sia sintomatico di un giudizio di inidoneità solutoria strutturale del debitore.
L’accertamento dell’insolvenza ai fini del fallimento non s’identifica in modo necessario e automatico con il mero dato contabile fornito dal raffronto tra l’attivo ed il passivo patrimoniale dell’impresa.
Lo sbilancio negativo, infatti, non esclude che l’imprenditore possa continuare a godere di credito e sia di fatto in condizione di soddisfare regolarmente e con mezzi normali le proprie obbligazioni, configurandosi l’eventuale difficoltà in cui egli versa come meramente transitoria.
Per contro, laddove l’eccedenza di attivo dipenda dal valore di beni patrimoniali non agevolmente liquidabili, o la cui liquidazione risulterebbe incompatibile con la permanenza dell’impresa sul mercato e con il puntuale adempimento di obbligazioni già contratte, il presupposto dell’insolvenza ai fini del fallimento può esser egualmente riscontrato.
È comunque evidente come l’eventuale eccedenza del passivo sull’attivo patrimoniale costituisce, pur sempre, e nella maggior parte dei casi, uno dei tipici “fatti esteriori” che dimostrano l’impotenza dell’imprenditore a soddisfare le proprie obbligazioni.
Quindi con un’analisi approfondita dei bilanci dell’impresa è possibile vagliare se il debitore disponga di risorse idonee a fronteggiare in modo regolare le proprie obbligazioni, tenendo conto della loro scadenza, della natura e composizione dei cespiti necessari per poterne eventualmente far fronte.
Avv. Ada Anselmo
(riproduzione riservata)