N. 23/2024
Sequestro penale: la cessione del credito in blocco intervenuta successivamente non comporta ex se la mala fede del cessionario, il quale è tenuto a dimostrare la buona fede del creditore originario
(Corte di Cassazione, I Sez. Penale, Pres. Santalucia- Rel. Magi, 30.01.2024, n.3798)
In tema di tutela del credito ceduto in epoca posteriore al sequestro preventivo, la cessione di un credito ipotecario, precedentemente insorto, successiva alla trascrizione di un provvedimento di sequestro o di confisca del bene sottoposto a garanzia, non preclude di per sé l’ammissibilità della ragione creditoria, né determina automaticamente uno stato di mala fede in capo al terzo cessionario del credito, potendo quest’ultimo dimostrare la propria buona fede.
Pertanto, la cessione del credito dopo il sequestro non comporta l’automatica mala fede in capo al cessionario, il quale potrà, comunque, chiedere l’ammissione del proprio credito allo “stato passivo” (art. 52 e segg. del D. Lgs. 159/2011 cd. Codice Antimafia). Il cessionario, subentrando nella stessa posizione giuridica del cedente, esercita i diritti e le facoltà del creditore originario (e, quindi, anche quella di chiedere il soddisfacimento del proprio credito con le modalità previste dal Codice Antimafia). Tuttavia, il cessionario ha l’onere di dimostrare la sussistenza della buona fede in capo al creditore originario e dovrà dimostrare anche la propria buona fede, intesa come mancanza di accordi fraudolenti con il soggetto che ha subito il sequestro/confisca.
Questo è il principio espresso dalla Corte di Cassazione Penale, Pres. Santalucia – Rel. Magi, con la sentenza n. 3798 del 30 gennaio 2024.
La vicenda in esame prende le mosse dalla iscrizione di un’ipoteca volontaria su un immobile a garanzia di un credito erogato dalla banca; cespite che veniva successivamente sottoposto a sequestro preventivo nei confronti del proprietario per reati tributari (omesso versamento IVA) dal medesimo commessi tra il 2010 e il 2011.
In sede di giudizio penale, nel 2017, veniva poi affermata la responsabilità di quest’ultimo e disposta confisca per equivalente del bene immobile.
Successivamente, nel dicembre del 2018, veniva stipulato un contratto di cessione dei crediti in sofferenza, “in blocco”, per cui la nuova banca diveniva cessionaria anche in rapporto al credito erogato nei confronti del soggetto sottoposto a confisca.
Secondo la Corte di Appello, chiamata a pronunciarsi sulla validità della predetta cessione, non poteva offrirsi tutela al soggetto cessionario, in ragione della strumentalità del finanziamento alla attività illecita, cui si univa l’assenza di dimostrazione della buona fede tanto del creditore originario quanto del soggetto subentrato nella titolarità della posizione creditoria.
Avverso detta ordinanza, la procuratrice della cessionaria proponeva ricorso per cassazione, deducendo l’erronea applicazione di legge in riferimento al mancato riconoscimento della condizione di buona fede in capo all’originario creditore e sostenendo che la confisca per equivalente non rientrasse nella sfera di applicabilità della particolare disciplina – applicata invece dalla Corte di Appello – di cui agli artt. 52 e ss. d.lgs. n.159/2011.
La Suprema Corte ha ritenuto il ricorso infondato, evidenziando che correttamente – sulla base della prevalente interpretazione giurisprudenziale – il giudice della esecuzione avesse fatto applicazione della disposizione di legge di cui all’art. 52 d.lgs. n.159/2011 anche nella ipotesi in cui il provvedimento di confisca del bene oggetto di garanzia fosse stato emesso “per equivalente”.
In secondo luogo, gli Ermellini hanno evidenziato che il giudice della esecuzione aveva correttamente e senza vizi logici escluso la buona fede del soggetto che aveva erogato il credito, ciò essendo sufficiente a determinare il rigetto della domanda e, dunque, del ricorso di legittimità.
La Suprema Corte ha evidenziato, inoltre, che la tutela del credito inciso, nella sua possibilità di soddisfacimento, dalla confisca di prevenzione derivava, in prima considerazione, dai caratteri della operazione di finanziamento che aveva “generato” il diritto di credito correlato al bene confiscato.
Come affermato dagli Ermellini, infatti, «Il fenomeno successorio del credito non comporta, sul piano civilistico, una novazione in senso tecnico», ma il cessionario, subentrando nella stessa posizione giuridica del cedente, «assume la titolarità del credito anche nella possibilità di far valere le condizioni, a quel credito afferenti, per l’ammissione dello stesso al riparto in caso di confisca del bene oggetto del diritto di garanzia associato al credito».
Pertanto, nel caso in cui il credito sia stato ceduto in epoca posteriore alla trascrizione del sequestro, il creditore cessionario può comunque avvalersi della condizione di buona fede sussistente in questi termini in capo al creditore originario al quale è subentrato nella stessa posizione.
In tal senso è ammessa la produzione di elementi tesi a dimostrare, in caso di strumentalità del credito alla prosecuzione dell’attività illecita, la buona fede del creditore originario che deve sussistere all’epoca della costituzione del credito.
Una volta dimostrata la buona fede del creditore originario, il creditore è ammesso a dimostrare la ‘propria’ buona fede, intesa come mancanza di accordi fraudolenti con il proposto.
Dunque, secondo la Suprema Corte, «è evidente che se il cessionario subentra nella medesima “condizione giuridica” del cedente, viene in rilievo – anche come unica condizione ostativa alla tutela – l’assenza di buona fede del cedente» stesso.
La Corte, da ultimo, ha ricordato che la procedura instaurata dalla parte privata per ottenere il riconoscimento della opponibilità del credito alla confisca è di natura essenzialmente civilistica, pur inserendosi in un contesto che “a monte” ha dato luogo all’applicazione di una misura ablativa in ambito penale.
Pertanto, dal momento che gli indicatori evidenziati nella decisione impugnata – in tema di assenza di buona fede del cedente – non sono stati contraddetti in modo efficace dalla società ricorrente, la Suprema Corte ha dichiarato il rigetto del ricorso, con condanna al pagamento delle spese processuali
Avv. Elena Marino
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